Storia

Maredolce La Favara: il luogo, la civiltà araba e normanna, l’evoluzione del paesaggio nella Conca d’Oro

Testo tratto da Maredolce-La Favara. Premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino, XXVI edizione,

a cura di Giuseppe Barbera, Patrizia Boschiero, Luigi Latini, Fondazione Benetton Studi Ricerche, 

Treviso 2015, pp. 67-85.

Dopo due secoli e mezzo di dominazione araba e cinque mesi di assedio, Roberto il Guiscardo e Ruggero di Altavilla, presa Palermo nei primi giorni del 1072, si divisero «lo palaiz et les chozes qu’il trovèrent fors de la cité». A Roberto «li jardin delectoz, pleins de frutte et de eaue», a Ruggero «li choses royals et paradis terrestre».

La pianura che circonda la città, chiusa dai monti e aperta al mare, nelle parole franco-latine di Amato di Montecassino, si presentava ai conquistatori normanni con un paesaggio che confermava una fama fondata su caratteri naturali ed estetici e accresciuta dal lavoro umano che aveva modificato alcuni limiti ambientali per aumentare le possibilità e le qualità insediative.

Una reputazione antica, testimoniata già nel IV secolo a.C. da Callia <<il territorio di Palermo in Sicilia si denomina tutto giardino per essere interamente pieno di alberi coltivati», arricchita dal susseguirsi di testimonianze di studiosi, viaggiatori, artisti e letterati, celebrata dal xv secolo con il no-me di Conca d’Oro e ritenuta da Fernand Braudel unica, tra le campagne mediterranee, degna dell’encomio di paradisiaca.

Specifica, lo storico francese, «che tale miracolo è stato operato grazie al condizionamento delle acque». Fa riferimento al superamento del principale limite agronomico derivante dalla diffusa presenza di acquitrini, paludi e suoli poco fertili, perché asfittici per ristagni o superficiali e soggetti alle carenze idriche di un “periodo secco” che, in assenza di piogge, dura da maggio a ottobre. Per giungere all’affermazione di orti e frutteti, nell’abbondanza e nel rigoglio che sono propri dei giardini e all’immagine consolidata di «area di antico e quasi mitico predominio dell’albero», sono stati necessari interventi di bonifica che hanno riguardato il controllo delle acque, e tecniche che ne hanno consentito ampio ed efficiente uso estivo. In questo modo si è resa possibile la coltivazione di frutteti e orti -i sistemi colturali che meglio valorizzano suoli fertili e irrigui – attraverso un percorso che è esito complesso di arti, saperi e tecniche con radici nelle diverse civiltà mediterranee. Il contributo più importante è arrivato dalla “rivoluzione agricola araba”. Con essa, all’eredità agronomica che risaliva ai tempi romani, prima ancora punici e, per contiguità territoriale, greci, si aggiungeva quella dell’universo islamico, ricco di culture scientifiche, saperi tecnici, organizzazioni sociali, patrimoni genetici, alimentato dalla scienza cinese e indiana, dagli antichissimi saperi della Mesopotamia e della Persia, dall’esperienza africana, dalla sapienza idraulica egiziana, dalle scuole agronomiche di al-Andalus.

Il successo del modello agricolo della rivoluzione araba – che sarebbe meglio definire islamica per la pluralità delle culture agronomiche che la definiscono – non si è manifestato solo con l’introduzione, che pure è avvenuta, di nuove o perfezionate tecnologie nel settore dell’irrigazione, né con la diffusione di specie o varietà agrarie idonee a una maggiore intensificazione colturale o all’ampliamento del calendario produttivo nei mesi estivi.

La radicale innovazione è risieduta in una visione olistica dell’agroecosistema, cui partecipava l’affermazione di un nuovo assetto fondiario e una fiscalità che favoriva l’incremento della produttività del lavoro e della terra, all’interno di uno “spazio idraulico” nel quale diverse tecnologie (macchine e manufatti, sistemazioni del suolo, rotazioni, consociazioni, colture)

concorrevano nell’utilizzare al meglio l’acqua, differenziando nel tempo e nello spazio le produzioni, collegando in sistema le diverse funzioni irrigue, energetiche, microclimatiche, estetiche.

In periodo arabo, il paesaggio palermitano si mostrava ricco di orti e frutteti regolarmente irrigati. AI-Muqaddasì, che visitò la città nella seconda metà del x secolo, scrive che «la circondano sorgenti e canneti [ … ] i mulini sono numerosi nel suo mezzo e abbonda essa di frutta e di produzioni [del suolo] e d’uva» Più ricca di notizie la descrizione di lbn Hawqal, che fu a Palermo intorno al 972: il territorio, illustrato nel dettaglio, è abbondante di orti, vigneti e frutteti e la «maggior parte dei corsi d’acqua [ … ] è utilizzata per annaffiare i giardini». La peculiarità del paesaggio è, quindi, nella grande disponibilità di fonti idriche e nel loro impiego per colture che le valorizzano. È possibile che il paesaggio descritto da Ibn Hawqal, in accordo con le parole di Amato di Montecassino, fosse arricchito da parchi e palazzi, fino a supporre l’esistenza di «una riserva emirale molto estesa», ma perché Palermo acquisisca quel carattere di città giardino che resterà nel tempo, bisognerà attendere i normanni.

Le attenzioni culturali dei nuovi regnanti venuti dal nord della Francia, che non sono portatori di particolari conoscenze o esperienze agricole né paesaggistiche, si manifestano nella volontà di adottare il modello orientale, favorendo il mantenimento del sistema agricolo di epoca araba e valorizzandolo con parchi dotati di laghi e canali, padiglioni di piacere e zone ombrose, giardini di fiori e frutti. Il paesaggio manifesta la grandezza e l’autorevolezza del nuovo potere sugli uomini e sulla natura. Agli interessi privati dedicati al soddisfacimento del piacere, si sommano le ragioni politiche che provengono dalla manifestazione di forza e di dominio che giunge dal controllo di spazi naturali selvatici, nudi, aridi o disordinatamente boscosi quando appaiono addomesticati e disegnati nei limiti di un giardino o di un parco, e da un paesaggio e uno stile di vita parte della cultura degli arabi sottomessi. I grandi parchi erano spazi multifunzionali. Vi si svolgevano feste e spettacoli, si banchettava, si amoreggiava, si cacciava. Avevano anche funzione di produzione agricola e di controllo e distribuzione dell’acqua, di osservazione botanica e agronomica, di meditazioni scientifiche e filosofiche. Erano luoghi dove «gli affari si mischiano al piacere, alla scienza, alle arti»

I parchi reali diventano elementi ordinatori del paesaggio non solo nei fertili spazi periurbani ma fino alle pendici delle montagne. La Conca d’Oro normanna è un mosaico di grande complessità ecologica e fascino estetico, con campi coltivati -in asciutto e in irriguo, frequentemente in coltura promiscua ma con piccoli appezzamenti specializzati -contigui a tratti di vegetazione boschiva e ripariate, acquitrini e paludi. Una rete di canali e bacini per-corre la campagna che1 nelle parti più intensamente coltivate e prossime alla città, appare punteggiata da alberi isolati e da piccole architetture rurali, con muretti e siepi che cingono spazi chiusi. Un paesaggio che rinvia a quello classico del «giardino mediterraneo», che, con le innovazioni arabe e i parchi normanni, si arricchisce di nuove tecniche, colture, manufatti per il lavoro e il piacere. Palermo nel 1139, per al-ldrisI, «abbonda di alberi da frutta [ … ] e dentro la cerchia delle mura che tripudio di frutteti, quale magnificenza di ville e quante acque dolci correnti, condotte in canali dai monti» e per lbn Gubayr, che la visita tra la fine del 1184 e 11 1185, «superbisce tra le sue piazze e le sue pianure che son tutte un giardino [ … ]. I palagi del re ne accerchiano la gola della città come i monili il collo di donzelle dal petto ricolmo» E’ la città del Viridarium Genoard (dall’arabo Jannat al-ard, paradiso terrestre) raffigurato negli essenziali caratteri paesaggistici in una miniatura del 1195 del Liber ad honorem Augusti di Pietro da Eboli. Al suo interno, entro confini incerti, la Zisa, la Cuba e la Cuba soprana, l’Uscibene, sorti nella seconda metà del XlI secolo.

Il Genoardo è, temporalmente, preceduto dalla Favara, che sarà nota anche come Mare-dolce, il più antico tra i parchi normanni palermitani. Questo presenta confini irregolari, è dotato di un grande specchio d’acqua di forma non geometrica, è aperto alla vegetazione spontanea e. alla caccia più di quanto lo siano i parchi-giardini del Genoardo, «inquadrati nell’architettura», con bacini artificiali e forma ben definita. La Favara, che Ugo Falcando nel 1190 annovera tra i delectabilia loca realizzati da Ruggero II tra il 1130 e il 1154, gli anni del suo regno, è anche capostipite dei loca solaciorum, i sollazzi, che si diffonderanno fino ai tempi di Federico II nei territori meridionali del regno normanno e poi svevo, sopratutto in Puglia e Sicilia; locuzione che non riguarda una tipologia architettonica, quanto il fatto che in essi «il sovrano e la sua corte si davano all’ otium praticando l’arte e la poesia e dialogando con la natura anche attraverso le battute di caccia». A proposito della Favara, il termine solacium è adoperato in un documento del 1282, nel quale Pietro d’Aragona nomina Niccolò Ioppulo «castellanum custodia palacii nostri panormi cum solaciis nostris vide licet cubbe azize ed favarie»

La sua localizzazione nella pianura meridionale palermitana e l’identificazione con strutture preesistenti in epoca araba è operazione complessa e ancora aperta a interpretazioni: Adalgisa De Simone, nel titolo di un suo recentissimo saggio, non a caso adopera il termine enigma

Di certo fawwara in arabo getto d’acqua, sorgente ribollente -è un idronimo molto diffuso in Sicilia1

Con riferimento a Palermo, è per la prima volta utilizzato da Ibn Hawqal che, nell’elencare le molte sorgenti di Balarm, scrive della «grande Fawwara»: è posta insieme alla «piccola [ … ] all’angolo della montagna che sovrasta la città». È il monte Grifone, all’ estremità meridionale della pianura palermitana. La grande Favara, che Ibn Hawqal considera «la più grossa sorgente», è anche indicata in una carta della Sicilia, nel Libro delle curiosità delle scienze e delle meraviglie per gli occhi, compilato intorno al 1020, che la riporta insieme con «la piccola Favara che deriva dalla grande» a conferma dell’importanza tra le fonti d’acqua della geografia araba palermitana La grande Favara, o comunque le diverse sorgenti che scaturivano là dove la pianura palermitana si restringe a sud-est per il protendersi in essa del monte Grifone, si espandeva in un acquitrino, favorito da una depressione, malsano e non utilizzabile a fini agricoli (se non per un uso pascolativo), a meno che l’acqua non fosse convogliata da canali e argini. Interventi che avrebbero consentito non solo l’uso produttivo ma, considerando la posizione, anche l’utile attivazione di un presidio di controllo all’accesso verso la città. È quello che avviene -lo dimostrano recenti indagini archeologiche -già in età romana (secoli 111-11 a.C.) e successivamente araba, quando sui resti di una possibile fattoria è edificata una costruzione compatta e solida: con ogni probabilità il Qasr (castello, castrum) Ga’far riferibile all’emirato di Ga’far (997-1019), testimoniato da lbn Gubayr nel 1184-1185. Presidio mili-tare, lungo la strada che da sud-est conduce alla città, attraversando il fiume Oreto (il Wadi ‘Abbas), dove sorgerà in epoca normanna (1131) il Ponte dell’ Ammiraglio, ma anche fattoria che valorizza le acque delle sorgenti che nascono alle pendici del Grifone, ancora oggi facilmente individuabili da tre archi, detti di San Ciro, realizzati in epoca medievale per raccogliere, regimare e ripartire le acque. Canali e cunicoli facilitano l’uso dell’acqua e già dalla seconda metà del X secolo, scrive Ibn Hawqal, «tutte le sue acque sono utilizzate per l’irrigazione dei giardini», con parole çonfermate dalle canalizzazioni individuate dagli scavi archeologici. Ruggero II modifica radicalmente aspetto e funzioni dei luoghi, realizzando uno tra i primi e più importanti interventi di riordino idrico della pianura palermitana. L’acqua sorgiva fu convogliata in un grande bacino prima, almeno in parte, interessato da coltivazioni. Lo testimoniano Romualdo Guarna di Salerno, il quale scrive che intorno al 1150 in «un luogo chiamato Favara [ … ] fu tolta molta terra e creata una cavità, fu fatto un bel vivaio» e Beniamino di Tudela che, nel 1172, conferma che «scaturisce il maggior fonte di tutti, che circondato d’un muro viene a formare un vivaio» Attraverso movimenti di terra, il bacino lacustre fu meglio regolarizzato per evitare esondazioni incontrollate e sulla sponda che dava verso la costa, dove per la naturale pendenza si accumulava maggiore presenza e spinta delle acque, fu innalzato un muro in grandi conci regolari. Era, e in parte lo è ancora per tratti evidenti, rivestito di cocciopesto rosato che si prolungava sul fondo per trattenere l’acqua. Non si è invece, finora, trovata traccia certa di un rivestimento che alla fine del XVII secolo, per osservazione diretta di Francesco Ambrogio Maja «era tutto di grossi mattoni e balatoni di vari colori»

Il bacino, che si estendeva dalla sorgente al muro di sbarramento, occupava circa 20 ettari e al suo interno emergeva un’isola ampia 3,4 ettari, creata da Ruggero sfruttando un bancone calcareo affiorante dopo averne sagomato, ove necessario, il profilo e rivestito le sponde di un muro intonacato a cocciopesto. Sul lato nord del bacino l’antico edificio arabo, anch’esso costruito su un affioramento calcareo, fu largamente ampliato e modificato per renderlo degno della presenza reale.

Il bacino (variamente denominato vivaio, peschiera e, oggi, lago), afferma Beniamino di Tudela, era chiamato dagli arabi Albehira. Una bubayra quindi, un “piccolo mare” e, per estensione, un grande frutteto chiuso, dotato di una vasca di accumulo delle acque e di orti. Il termine, che Giuseppe Bellafiore considera sinonimo di agdal, rinvia a Marrakech, al parco periurbano con i due grandi bacini di Dar al-Hana e di al-Ghrsiyya (quest’ultimo con una piccola isola al centro) costruito nel 1157 e denominato Bubayra fino alla fine del XVIII secolo, quando diventerà noto come Agdal

La Favara appartiene, quindi, a quella tipologia di spazi comuni delimitati, protetti e regolamentati, diffusa nell’Africa magrebina, solitamente riferita a usi agro-forestali e pastorali, ma attribuibile, come “agdal giardino”, anche a un parco imperiale, simbolo dell’autorevolezza del potere, «grande giardino impiantato su immensi bacini dove si riflettono squisiti padiglioni destinati ai piaceri dei principi». Il modello paesaggistico della Favara, a confermare l’ispirazione culturale islamica, si ritrova, secondo Alessandra Bagnera, nel palazzo monumentale di Sabra al-Mansuriyya, in Tunisia, dotato anch’esso di grande bacino, considerato, anche in termini planimetrici, analogo agli esempi normanni siciliani e a essi contemporaneo.

Il bacino, che Ibn Gubayr chiama siqaya, dicendolo interno al Qasr Ga ‘far e «nutrito da una polla di acqua dolce», rifletteva l’immagine del palazzo raddoppiandola ed esaltando il senso di potenza che trasmetteva l’imponente architettura. La magnificenza della Favara era degna di una sede reale, simbolo evidente del potere ma anche luogo di piaceri esclusivi: scriveva Romualdo che era stata realizzata da Ruggero «perché [ … ] in nessun tempo mancassero le delizie della terra e delle acque»

Delizie che il bacino assicurava rinfrescando l’aria con l’evaporazione superficiale, alimentando giochi d’acqua e garantendo abluzioni, come quelle evocate in una poesia di Ibn Qalaqis che racconta di una giornata di svago del 1168, trascorsa bagnandosi in acque che assicuravano «un refrigerio che smorzava i carboni ardenti dell’estate» e immaginando «l’inverno, quando la spada dell’estate si spunta» Le acque delle sorgenti, raccolte nel bacino o condotte in canali, svolgevano anche funzioni igieniche, terapeutiche e di piacevolezza per il corpo.

A esse era dedicato un bagno (una stufa, un laconico o un sudatoio, come è stato diversamente chiamato), i cui ultimi resti furono, secondo Adolph Goldschmidt, cancellati nel 1880

L’uso dei bagni era molto diffuso già nella città araba, ma a un’origine romana rimanda Francesco Maria Emanuele e Gaetani, marchese di Villabianca, che vuole La Favara luogo adibito a naumachia, quindi a finte battaglie navali. Immaginava, anzi, che i tre archi alla sorgente fossero parte di un circuito completo attorno a un lago adatto a svaghi ben più spettacolari di quelli privati cui accennava Beniamino di Tudela: «è adornato quel lago di reali barchette ornate d’oro e d’argento, e dipinte nelle quali il re con le sue mogli spesso si dimena a sollazzo»

Barche che è possibile uscissero da una grande apertura sulla parete del palazzo che s’immaginava collegata con un ponte levatoio all’ isola.

Il bacino era anche adoperato con funzioni di peschiera. Lo testimoniano: Romualdo «vi furono immessi pesci di diversa specie, portati da varie regioni», Beniamino di Tudela «vari generi di pesci ivi a posta gettati» oltre che il poeta ‘Abd ar-Rahman al-Itrabanisi (il “segretario trapanese”, vissuto ai tempi di Ruggero). La qasida del poeta arabo siculo, la più nota tra le produzioni letterarie di Palermo normanna, fornisce alcune indicazioni che, seppure nell’enfasi poetica e con dubbi interpretativi, sono preziose nell’individuare elementi del paesaggio: nove canali dividono le acque della sorgente, si coltivano palme e, nell’isola, limoni e aranci: «gli aranci superbi dell’isoletta», «i rami dei giardini» che sembrano protendersi a guardare i pesci scherzare» evocano suggestioni paesaggistiche di provenienza andalusa e, prima ancora, persiana.

Il parco è abbellito da alberi da frutta e da ombra, arbusti e fiori. Nei testi che riguardano i giardini di Palermo normanna si menzionano melograni, gelsomini, anemoni, narcisi, margherite, gigli, ma le presenze vegetali caratteristiche di quei paesaggi vegetali erano aranci, limoni e palme.

Francesco Baronio Manfredi, nel XVII secolo, immagina l’antico giardino «ben riempito di spalliere di aranci, limoni e citri, e con arbori, e con frutti d’ogni maniera acconcio, ma d’intorno rosseggiando le rose, e biancheggiando le giglia rendeano odori di paradiso, onde quel vago e bello nome ne trasse. Solatium regiùm amoenissimum, cioè a dire Regal diporto del Re». Le palme sorto le dattilifere, immancabili in un giardino islamico «il palmizio, dice Abu Hatem, è un dono accordato da Dio ai soli paesi governati dall’Islam, avvegnaché niuno se ne trovi nella terra degli infedeli» -anche se, nel clima siciliano, i datteri molto raramente giungono a maturazione.

Gli aranci sono della specie amara (quelli dolci saranno segnalati a Palermo solo nel 1487) e, insieme ai limoni e al limoncello (lumia), sono presenti in Sicilia dall’XI secolo, quando sono coltivati, nel 1094 e 1095, sulla costa tirrenica. Colture simbolo dell’apporto della civiltà islamica all’agricoltura dell’Europa mediterranea, sono inizialmente nei giardini aristocratici, probabilmente in forme artificiali create con la potatura, per la bellezza ma anche per l’uso alimentare (succhi e sciroppi), la farmacia (corteccia) e la profumeria (fiori).

Nella poesia di ‘Abd ar-Rahmar, il primo verso allude a un duplice lago o mare (bahr), secondo le diverse possibili traduzioni. È una delle tante confusioni «topografiche o onomastiche», come osserva Guido Di Stefano, in cui spesso è occorso chi si è occupato della Favara, a partire proprio dall’identificazione topografica di questa e per la presenza di diverse omonime sorgenti in quel tratto di territorio. Si è pensato a due o tre Favare distinte e lontane tra loro o formate dallo stesso gruppo sorgentizio alle falde del Grifone; sono state suggerite altre denominazioni. I toponimi Favara e Maredolce, in letteratura vengono diversamente utilizzati riferendosi, nelle combinazioni possibili, alle sorgenti o al palazzo o al lago.

Henry Gally Knight nel 1838 correttamente osserva che la Favara è la causa e Maredolce l’effetto. In linea generale è, oggi, prevalente l’indicazione di Favara riguardo al palazzo e di Maredolce al complesso palazzo-lago mentre non appare corretta (o utile) la traduzione “duplice lago” che si giustificava con la presenza di due distinti laghetti oggi scomparsi. La traduzione “due mari” fa, più facilmente, riferimento alla visibilità dal palazzo sia del mare Tirreno che del lago, dolce perché alimentato da acque non saline. Come Maredolce il lago è designato a partire dal 1328 in un privilegio di Federico II d’Aragona che riporta le parole «Solatium Fabariae Sancti Philippi cum Mari Dulce, ad solatium regium immediate pertinens». Dubbi interpretativi riguardano anche le parole della poesia che si riferiscono a un palazzo «eretto in mezzo al lago» (nella versione di Francesco Gabrieli) o «la (pen)isola nella quale si estolle il bel patagio» nella traduzione di Michele Amari che ben specifica la sua opinione con le parentesi e più ancora con una nota nella quale si afferma che· «il castello villa regia sporgea , dentro il lago, ma rimanea congiunto alla riva»

Licenza poetica, quindi, quella che vuole un palazzo sull’isola nel lago, soltanto evidenziata in un disegno di Vincenzo Auria del 1650, finora non testimoniata da altre fonti ne da specifiche ricerche.

I piaceri della corte, la bellezza del paesaggio che si specchiava sull’acqua, il silenzio favorivano la contemplazione, la concentrazione e la vita intelletuale.

Alla corte di Ruggero, scrive Romualdo, partecipavano «sapientes viros»; cattolici, musulmani, ebrei e «filosofi eruditi» come ricorda nel XIV secolo lo studioso di Damasco al-Safadi

Il più illustre era certamente al-Idrisi, il grande geografo che aveva compilato il compendio Diletto per chi visita i paesi della terra che diverrà noto come Il libro di Ruggero.

Le piacevolezze del corpo e della mente si attutivano nei mesi estivi, quando il fresco dell’acqua e dell’ombra non erano sufficienti a rendere sopportabile il clima della pianura palermitana, soprattutto se soffiava il samun, il vento caldo e secco temuto nella poesia di lbn Qalaqis. Meglio allora trasferirsi in montagna ed è per questo che, in contiguità con La Favara, Ruggero «costruì un palazzo al quale fece portare l’acqua da una fonte purissima attraverso acquedotti sotterranei [ … ] e [ … ] fece chiudere con un muro di pietre alcuni terreni montuosi e boschi vicini a Palermo e ordinò che fosse impiantato un parco molto delizioso e ameno, rendendolo folto di alberi e liberandovi daini, caprioli e cinghiali». In esso «temperava l’avvampo del calore estivo soggiornando nel parco e sollevando l’animo affaticato dai suoi impegni con un uso moderato della caccia». Per i normanni, la caccia era pratica fondamentale per la formazione di un cavaliere, allenamento alla guerra, palestra di coraggio e di strategie militari. I boschi dei monti a sud-est di Palermo, che si univano· con quelli del circondario fino a Godrano, Ficuzza e Monreale, in un insieme del quale i confini sono di difficile tracciamento, erano adatti all’arte venatoria; protetti, dopo secoli di degrado e spoliazione; da norme che definiscono un “diritto forestale” di cui si hanno le prime tracce nelle raccolte di leggi di Ruggero Il e che sarà articolato da Guglielmo II.

Il parco che si forma sarà denominato “Nuovo” perché realizzato dopo La Favara (Parco Vecchio) e il palazzo di Ruggero diventerà il nucleo di un centro abitato che nelle denominazioni -dapprima Parco e poi Altofonte ( dal 1930) -ricorderà i caratteri ambientali e le ragioni del sorgere.

La caccia riguardava cervi, daini, caprioli e cinghiali, lupi e volpi, piccola selvaggina, diversi volatili e falconi utilizzati per la pratica, già diffusa in epoca araba, della falconeria. I normanni seguiranno la tradizione orientale di importare animali esotici (come i pesci di varie regioni di cui si è detto a proposito del lago) e liberarli nei serragli o nei recinti dei parchi. Di questa antica tradizione si trovano tracce nella miniatura che riguarda il Genoardo di Palermo. Su una palma si riconosce un parrocchetto dal collare, nativo delle regioni etiopiche e orientali. Su due alberi non individuabili ma che potrebbero essere agrumi, due falconi e un piccione. Ai loro piedi, tra palme e vigne, un caracal, felide simile alla lince utilizzato per la caccia agli uccelli nelle corti orientali e anche nell’Italia dell’XI secolo.

Il lago costituiva anche una grande riserva d’acqua per l’irrigazione, assicurata attraverso norie o canali che vi conducevano l’acqua sorgentizia o se ne dipartivano. La disponibilità d’acqua, le necessità economiche e le curiosità culturali sostenevano un’agricoltura innovativa. Maredolce sarà, nei secoli normanni e svevi, luogo di sperimentazioni per una campagna coltivata che meravigliava -esemplari le parole di Ugo Falcando -i visitatori nordici per la grande biodiversità e il ricorso a nuove tecnologie agronomiche. Oltre agli agrumi, necessariamente in irriguo, la disponibilità di acqua favoriva la coltivazione della canna da zucchero, presente a Palermo già alla metà del X secolo secondo la testimonianza di lbn Hawqal che la chiama canna persiana, qasab farisi. Alla Favara risulta in coltura nel 1113. Negli stessi anni e alla fine del secolo era segnalato un cannetum, e potrebbe trattarsi della canna da zucchero o di canne comuni necessarie come supporto per i tralci alla coltivazione della vite, anch’essa testimoniata nel XII secolo. Il paesaggio agricolo attorno alla Favara è occupato da orti, frutteti, canneti e vigneti fin quando la funzionalità del sistema irriguo è assicurata, cioè fino agli anni in cui si rompe l’equilibrio politico tra musulmani e normanni con l’abbandono di molti manufatti e anche del canale che univa il Parco Vecchio al Nuovo. Si sviluppa allora, ulteriormente, la coltivazione della vite. Oltre al disappunto di Roberto il Guiscardo, il quale durante l’assedio di Palermo, come racconta Amato di Montecassino, si trovò costretto per mancanza di vino a bere acqua, nel quadro di crisi politica, economica e demografica che colpisce la città negli anni di Federico II e che si manifesta anche nell’abbandono delle opere idrauliche che assicuravano il drenaggio dei suoli paludosi o l’irrigazione di quelli asciutti, concorrono alla sua espansione l’adattabilità della pianta ai terreni umidi e non drenati come a quelli secchi e il ridotto fabbisogno di manodopera per la coltivazione. Nonostante i cambiamenti di coltura, ancora nel 1194, quando Enrico VI vi sosta, come aveva fatto _cinque anni prima Tancredi, prima di entrare in città, La Favara era ancora splendente tanto da meritare, secondo Pietro da Eboli, le lodi dell’imperatore. E sarà ancora in buone condizioni nel 1278, quando Carlo d’Angiò l’affida al suo vicario in Sicilia. I cambiamenti avevano riguardato soprattutto il paesaggio dove si sperimentavano e diffondevano nuove colture. Tra queste, nonostante ripetuti tentativi, non avrà successo la palma da datteri, seppure un palmeto si estendesse -se ne ha notizia dal 117 4 -fino al Ponte dell’Ammiraglio. Su di esso si appunteranno le intenzioni innovatrici di Federico II, che nel 1239 lo assegna, come si evince da una lettera a Oberto Fallamonaca, secreto di Palermo, a un gruppo di ebrei che provengono dal Gharb ( da identificare con il Maghreb) nella speranza di vederlo fruttificare. Il tentativo non avrà successo -perché, come detto, a esso si oppongono le condizioni climatiche dell’isola -e nel 1265 parte del dattileto, quella più vicina alla costa, verrà spiantata e vi sarà concesso di coltivare vigne e oliveti. Le palme, celebrate da Nicolò Speciale come pari a quelle di Palestina e dell’isola di Gerba, saranno definitivamente distrutte nel 1316 dagli Angioini. Con altre nuove colture Federico cerca di alleviare la crisi agricola: nei pressi della Favara promuove la coltivazione dell’henné (un arbusto, noto anche come alcanna, già coltivato in Sicilia secondo il Libro delle Curiosità e al-Idrisi, dalle cui foglie si ottiene un colorante rossastro), dell’indaco (leguminosa che tinge in azzurro) e di «alia diversa semina». Tra queste anche il pepe: nel 1240, per volere di Pier della Vigna, se ne tenta la coltivazione che inevitabilmente fallisce per le esigenze ecologiche tropicali della specie che il clima siciliano non poteva soddisfare. I tentativi di Federico riguardano anche la coltura della canna da zucchero che è ormai abbandonata, al punto che le conoscenze relative alla coltivazione sono dimenticate. Su consiglio del Fallamonaca, Federico scrive al balio di Gerusalemme, Riccardo Filangieri, chiedendo l’invio di due uomini che siano abili a ottenere lo zucchero e a insegnare a farlo per-ché «non possit deperire ars talis in Panormo de levi»44. Fallirà anche questo tentativo e bi-sognerà attendere quasi due secoli perché le potenzialità della specie siano pienamente colte. Recenti rinvenimenti a Maredolce, che riguardano l’industria dello zucchero (resti di una macina in pietra che moliva le canne, le fornaci dove si cuoceva il succo, le forme dove si raffreddava, cantarelli che raccoglievano le impurità, vasi di una noria utilizzata per sollevare le acque a fini irrigui o per raffreddare le forme) confermano la presenza della cannamela (canna da zucchero) e di trappeti (frantoi) come quello del 1412 di Pietro Afflitto, che usava le acque di Maredolce.

Il destino del palazzo verso il degrado ha una data certa nel 1328, quando il Solatium Fabariae Sancti Philippi cum Mare dulci viene ceduto, insieme a due mulini, come indennizzo per riparare il danno subito con la distruzione del grande palmeto che si estendeva fino al Ponte dell’Ammiraglio, da Federico d’Aragona ai cavalieri teutonici della Magione che ne faranno un ospedale «dove solevano dare gli bagni e le stufe agli ammalati» Due secoli dopo il palazzo è ormai diruto. Fazello scrive nel 1560 che «si vedono ancora alcune vestigia» e nel 1580 nella pianta della città di Maiocco e Bonifacio si leggono gli archi ma non il palazzo e il lago. Nel 1430, questo esiste ancora ma progressivamente è ridotto ad acquitrino, come nel 1681 attesterà Francesco Ambrogio Maja: «è quasi tutto fatto palude» Nel bacino, secondo Antonino Mongitore, nel 1742 «ove eran l’acque sono alberi fruttife-ri»49. In un disegno del 1767 Pigonati lo mostra ridotto a poche acque stagnanti, buone, per Maja, per la pesca di «anguille, pesciolini e cancri» e la sosta di «anistri» (anatre), «colli verdi» (germano reale), «fogge» (folaghe), «gammette» (nome generico che indica uccelli limicoli)50• La sorgente è comunque sempre di grande interesse per l’irrigazione delle campagne e per la funzione motrice che esercita nell’azionare i mulini. Lo testimonia Vincenzo Auria quando dice «che scaturisce una gran quantità d’acqua che irriga il vicino paese e tale • che basta ancora girar un molino per macinar fromento» I mulini per Maja, nel 1687, sono dodici, cinque un secolo più tardi per Villabianca, e mossi da due canali derivati dalla sorgente per «l’irrigazione de’ verzieri». Uno di questi è noto come «acqua della scomunica» in ricordo della pena in cui incorreva, ai tempi della proprietà della Magione, chi frodava la Chiesa prendendone le acque. La sorgente sostiene un paesaggio che si mostra florido. Baronio Manfredi, nel 1645, elo-gia «la chiarezza, o la soavità delle acque del Mar Dolce o per I’ erbe, che la rivestono, o per gli alberi che la circondano o per l’abbondanza dell’acque che scaturiscono». Nello stesso secolo per Maja «fa girare molini, innaffia giardini, anima fontane» e, per Vincenzo Di Giovanni, «tutte queste contrate sino al mare son piene di giardini, vigne, oliveti e torri, con edi-ficii superbi e grandi» Il paesaggio di Favara Maredolce -anche l’isola nel frattempo è ordinatamente coltivata, come mostra il disegno di Pigonati -è sempre molto apprezzato. Ai tempi di Villabianca, il 15 agosto si svolgevano corse di cavalli che ricordavano i cortei del XVII secolo, quando il viceré arrivava tra «archi trionfali con fontane d’acqua, vino ed olio». La nomea del luogo si arricchiva anche della considerazione di cui godeva il foraggio irrigato con le acque della sorgente e che dava origine ali’ «adagio che per mangiar carne prelibata ci abbisogna l’acqua di Mardolce»53. Negli anni in cui scrive Villabianca (1777-1789) si è finalmente consapevoli dei valori culturali di Maredolce e si.prende atto della necessità di procedere a un intervento di bonifi-ca che, prosciugando le acque e regolandole, impedisca condizioni malsane che favoriscono epidemie di malaria. Così nel 1778 il principe di Torremuzza, regio custode delle antichità della Val di Mazara, avvia i primi interventi di restauro e di questo incarica Carlo Chenchi, che li dirige. A lui e prima ancora (1767) ad Andrea Pigonati, va il merito dei disegni che ne precedono l’intervento. Nel 1791 e nel 1792 si procede a prosciugare le paludi e i ristagni e a creare un canale per 1′ irrigazione

Alla fine del XVIII secolo Maredolce è un paesaggio rurale, un mosaico di seminativi, frutteti, vigneti, canneti, oliveti. Léon Dufoumy, nel 1789, reputa alcuni di questi antecedenti alla costruzione del palazzo, che in quegli anni fungeva da cantina, apiario, stalla e fienile. Sul lato nord, su terre ben asciutte, siepi di fichidindia per assicurare agli animali un foraggio estivo. L’evoluzione del paesaggio di Maredolce accompagna quella della campagna meridionale della Conca d’Oro. Le innovazioni sperimentate da Federico II non avevano avuto successo e orti e frutteti continuano a occupare le aree dove è disponibile acqua per l’irrigazione, mentre vigneti e oliveti diventano le colture perenni più praticate nelle terre asciutte. Grandi oliveti sono segnalati nei secoli XV e XVI, come quello della famiglia Carastono, vasto al punto da costituire un monopolio e dare luogo a speculazioni sul mercato degli oli che, nel 1450, provocheranno una rivolta che si conclude con la sua distruzione. Le terre·di Ciaculli,le più lontane dalla costa, diventano importanti per la viticoltura: i suoli pietrosi (Ciaculli da ciaca, piccola pietta), alle falde del monte Grifone, producono vini apprezzati -un detto recita: «Acqua a la Bagaria, ventu a li Colli/Cu’ voli vinu bonu a li Ciacuddi» -tra colture di fichidindia, pistacchio e sommacco. Il paesaggio cambierà ancora con la coltura su ampie e compatte superfici degli agrumi, definendo l’ultima gloriosa pagina della Conca d’Oro e segnandone ancora oggi, lì dove sopravvive, il fascino paesaggistico. La specie prevalente è il limone, che alla metà del XIX secolo sostituisce nelle campagne palermitane l’arancio dolce, dopo una distruttiva epidemia di mal della gomma. Il successo economico dei limoni è travolgente. La rendita assicurata dalla loro coltivazione viene ritenuta la più alta in Europa; sostenuti dall’esportazione verso gli Stati Uniti d’America e il Nord Europa, per conquistare definitivamente la Conca d’Oro attendono, intorno al 1870, la diffusione di una macchina idraulica -la noria Gatteau -che sostituisce le vecchie norie arabe. Anche la campagna meridionale prossima alla Favara è interessata, anche Ciaculli cambia volto, si copre di agrumi e la borgata cresce lungo la traz-zera regia che passa davanti ai tre archi di San Ciro. La campagna di Maredolce diventa un grande limoneto che occupa, secondo dati catastali, l’intera superficie del lago e dell’isola. Lo sarà fino al 1940, quando anche i suoi alberi di limoni sono devastàti dal diffondersi del-la fitopatia del mal secco. Alcuni verranno sostituiti da orti, altri dal mandarino, dapprima della varietà “Avana” e quindi dal ”Tardivo di Ciaculli”. Una varietà, quest’ultima, indivi-duata alla fine della seconda guerra, subito apprezzata per l’epoca tardiva in cui i frutti ma-turano (febbraio-marzo) e per la ridotta incidenza dei semi Tra il 1949 e il 1954 le terre di Maredolce ne sono interamente conquistate, ma tutta la campagna meridionale, fino alle pendici di monte Grifone, viene trasformata. I mandarini si inerpicano sui terrazzamenti fino a 300 metri sul livello del mare anche grazie a nuove disponibilità idriche. Tutta la Conca d’Oro appare una «foresta profumata» e Maredolce, mentre il palazzo abbandonato si copre di casupole -«nido di povera gente», le definirà il soprintendente Ma-rio Guiotto -, mantiene ancora a lungo i suoi giardini di mandarini. Silvana Braida, nel 1965, agli inizi del devastante sacco edilizio che si avvia a sfigurare la Conca d’Oro, trova «integra quella sua lontana atmosfera fiabesca», anche se nella parte che guarda la città si ingrandisce, nel pieno disordine urbanistico, il quartiere di Brancaccio; se accanto al palazzo nonnanno nasceranno alti condomini; se si costruirà anche sugli argini della diga di sbarra-mento, seppure vincolati già dal 1913; se una autostrada dividerà, passando sul bacino del lago, il palazzo dalla sorgente; se case di mafiosi, abusive e opulente, nasceranno al posto dei mandarini. Gli agricoltori di Maredolce continuano a coltivare i mandarini o a disegnare orti. Il “sacco di Palenno” si concentra prevalentemente nella Piana dei Colli, al lato oppo-sto della Conca d’Oro. Resiste la campagna meridionale mentre la “mafia dei giardini”, do-po essersi affermata facendo del controllo dell’acqua e delle sue capacità di intermediazione il punto di forza, si indirizza alla speculazione edilizia e al traffico e alla produzione della droga. Fino agli anni 1960-1970 tutta la Conca d’Oro, e non solo la contrada di Ciaculli, rimane un territorio agricolo fondamentalmente agrumicolo, ricoperto pressoché del tutto da impianti di tipologia ottocentesca a sesto stretto. Nella seconda metà del secolo, la situazione cambia in maniera radicale per ragioni che prima sono strettamente agricole e poi assumono i caratteri propri delle agricolture periurbane. La tipologia colturale e i caratteri della proprietà fondiaria impediscono la diffusione della meccanizzazione e il conseguente conteni-mento dei costi di produzione. L’agrumicoltura palennitana risulta vecchia non solo nel di-segno e nella struttura fondiaria ma anche nell’età delle piante, la cui produttività risulta in-sufficiente ad assicurare un reddito adeguato. Da queste considerazioni nasce nel 1994 un progetto per un parco agricolo che verrà finanziato dall’Unione Europea con il programma Lìfe. Ha per titolo Modello di gestione per la tutela e la valorizzazione dell”area agricola periurbana di Ciaculli. Realizza interventi che sostengono le funzioni produttive, ambientali e culturali degli agrumeti che verranno però, l’anno successivo, abbandonati dall’amministrazione pubblica che pure lo aveva sostenuto. Il paesaggio agrumicolo tradizionale viene nuovamente colpito da abbandoni colturali e consumato da nuova edilizia, nonostante il piano regolatore, e solo la nascita di un consorzio, il riconoscimento della qualità del mandarino tardivo come presidio Slow Food, l’inserimento del territorio di Ciaculli nel Catalogo dei paesaggi rurali storici, si oppongono al compimento del sacco, mostrano consapevolezza dei valori multifunzionali del territorio. Anche il giardino della Favara progressivamente degrada, nonostante il lavoro e le proposti:, di esperti come Silvana Braida e Raffaele Savarese, e rimane oggi, al margine estremo della città, luogo simbolo di valori culturali e ambientali fondamentali: basta porre le spalle alla città e guardare il paesaggio ancora fitto di agrumi fino alle montagne che chiudono la Conca d’Oro. Per chi è attento all’architettura e alla storia dei giardini un esempio, ormai unico nel paesaggio, dell’incontro tra culture e sensibilità diverse: l’islamica e la normanna che la accoglie e l’elabora. Per chi è attento all’agricoltura urbana un’evidente sfida -che per i valori particolari rimane difficile ma non estrema -per mostrare la possibilità di ricomporre le relazioni tra gestione dei servizi ecosistemici, conservazione della biodiversità, innovazione, occupazione e inclusione sociale. Recuperare Maredolce, sfuggendo a ogni irrealistica idea di tornare alle forme originarie riprendere il paesaggio agrario tradizionale, promuovere un uso che tuteli e valorizzi la multiculturalità, sono obiettivi che vanno ben oltre i confini locali, riguardano ciò che rimane dell’idillio paesaggistico della Conca d’Oro, il futuro delle città mediterranee, l’incontro, che in esse e attorno ad esse è stato sempre proficuo, tra culture diverse.